Il mondo a portata di mano: export ergo sum

Parola d’ordine: internazionalizzazione. Lo sanno bene le aziende dell’agroalimentare che, forti di un 2015 stellato, guardano con sempre maggiore interesse oltre confine consapevoli che la crescita parli le lingue del mondo. Esportare, oggi, è un diktat complice una congiuntura di fattori non trascurabili tra cui il costante aumento della domanda di prodotti food and beverage Made in Italy dalla qualità superiore rispetto a quella dei concorrenti.

Nonostante alcune innegabili criticità nella pianificazione dell’export – difficile individuazione di partner commerciali e dei paesi nei quali esportare, utilizzo di soli canali tradizionali offline, tra gli altri – lo scenario dell’internazionalizzazione rappresenta comunque una soluzione opportuna e praticabile per far fronte ad una crisi che continua a mordere. Non è un caso infatti che, in base ad una ricerca commissionata da Google, il 60% delle aziende di piccole e medie dimensioninegli ultimi 5 anni abbia cominciato a tessere rapporti significativi con l’estero, con risultati soddisfacenti o incoraggianti in una prospettiva di medio periodo. È sufficiente monitorare l’andamento del comparto agroalimentare per rendersene conto.

I numeri non mentono

I dati diffusi durante l’assemblea annuale di Aiipa (Associazione italiana industria prodotti alimentari) parlano chiaro. Il contributo dell’export sul giro di affari delle imprese associate è stato fondamentale nel 2015: sul fatturato complessivo che ha superato i 18 miliardi di euro, registrando un aumento del +2,7%, i ricavi realizzati oltre confine hanno sfiorato i 5 miliardi di euro, con un incremento del +6,3% sul 2014. Un risultato in linea con quello riportato dall’industria alimentare nel suo totale che ha toccato quota 29 miliardi di euro su un monte totale di 132 miliardi di euro. Equilibrata anche la ripartizione dei singoli fatturati che ha visto la prevalenza dei prodotti vegetali (25,2%), seguiti dal caffè (17,9%) e dagli altri prodotti racchiusi in una forbice tra il 10% e il 17%. Una performance significativa che ha però un ampio margine di miglioramento se raffrontata a quella dei vicini di casa – l’Italia porta all’estero solo il 20,5% del fatturato alimentare, contro il 33% della Germania e il 27% della Francia – e al mappamondo di altri potenziali Paesi con cui iniziare a dialogare.

Ad oggi, infatti, i prodotti f&b del Bel Paese finiscono sia nell’area UE (+5,7%) che extra UE (+7.0%) concorrendo a ridefinire la geografia della distribuzione. Mercati di sbocco sempre più significativi sono il Belgio (+42,3%) e gli Stati Uniti (+22,9%) che, superando la Francia, ora occupano la seconda posizione alle spalle della Germania. Sullo sfondo, ma con una forza considerevole, sono i mercati del Middle East (Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita) e quelli asiatici. La fine dell’embargo verso la Russia, che potrebbe vedere la luce entro la fine dell’anno, rappresenterebbe inoltre un’occasione da non farsi scappare (nel 2013 l’export alimentare verso quest’area è stato di 562 milioni).
Nel mosaico di opportunità un ruolo non secondario lo gioca inoltre il controverso TTIP, le cui reali possibilità di entrata in vigore sono attualmente risicate (circa 5%). Il “Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti”accordo commerciale tra gli Stati Uniti e l’Europa che prevede di integrare i due mercati attraverso l’abbattimento delle barriere economiche e quelle non tariffarie consentendo la libera circolazione delle merci nei rispettivi territori, ndr – dando vita alla più grande area di libero scambio del mondo (800 milioni di consumatori), creerebbe la condizione fondamentale per far ripartire i consumi, favorire l’export e aumentare il livello di occupazione. Se per i favorevoli offrirebbe una forte opportunità per l’esportazione verso gli USA soprattutto per quei Paesi che hanno produzioni di qualità in settori di nicchia come l’Italia, per i contrari, invece, l’apertura delle frontiere e la revisione delle legislature penalizzerebbe proprio i prodotti di qualità che si vedrebbero schiacciati dal peso delle grandi multinazionali.

Idee chiare, strumenti da affilare

Quale che sia l’esito finale dei TTIP, per le aziende italiane del comparto agroalimentare che puntino verso l’alto è evidente la necessità di volgere lo sguardo “oltre”, mettendo in pista tools efficaci per approcciare correttamente la nuova sfida. Primi tra tutti quelli digitali. Secondo la ricerca Work in Food, future jobs trends in the food industry, però, solo il 43% delle aziende italiane attive nella produzione e commercializzazione di prodotti enogastronomici intende investire in figure specializzate nel digital marketing, dimostrazione della loro scarsa confidenza con il mondo del web marketing in generale (l’Italia risulta 25esima per livello di digitalizzazione in Europa, ndr) e dell’eCommerce in particolare. Nello specifico nel settore agroalimentare, lo Stivale è ancora fanalino di coda dell’Europa con un’incidenza solo dell’1% sul totale del mercato online. A rappresentare una barriera al suo sviluppo sono elementi trasversali che spaziano dalla scarsa predisposizione all’acquisto via web dei clienti al timore di vedere il proprio prodotto copiato, dalle normative alla logistica.

Prospettive di squadra

Malgrado questi gap, però, la cavalcata del comparto sembra non arrestarsi sotto lo sprone di strategie nuove da affiancare a quelle già operative. L’ultima in ordine di tempo punta a portare aziende italiane “organizzate a sistema” a produrre nei paesi emergenti.

“Nessun equivoco però – ha spiegato in una recente intervista al Sole24Ore Luigi Scordamaglia, Presidente di Federalimentare – perché le nostre produzioni di qualità legate a tradizioni e territori continueremo a farle in Italia. Nei Paesi emergenti come quelli dell’Africa sub sahariana, ad esempio, porteremo le nostre aziende e le nostre capacità produttive per rafforzare un’economia agroalimentare locale in fase di sviluppo e per produrre quelle commodities che non possiamo produrre in Italia”.

Da “Made in Italy” a “Made with Italy il passo non solo è breve, ma anche utile se basato sul presupposto del fare squadra. Va in questa direzione l’accordo stretto tra Federalimentare e Federunacoma (federazione dei costruttori di macchine agricole) che si propone di portare sistemi di filiera – in soldoni: dai campi all’industria di trasformazione – in quei Paesi dove il potenziale di sviluppo è enorme. Gira che ti rigira la premessa sta sempre li: insieme si vince.

Nel prossimo articolo alcuni utili consigli per tutte quelle aziende di piccole o medie dimensioni che vogliano approcciare il mercato internazionale.